Contro le diseguaglianze

Intervista a: Antonio Gaudioso

  • Data 04 marzo 2024
Antonio Gaudioso

Contro le diseguaglianze

La difesa degli utenti della sanità si può fare, con strumenti diversi, sia al timone della più importante associazione civica sia nel cuore delle istituzioni. La dimostrazione è nella storia personale di Antonio Gaudioso, che per quasi un anno, da novembre 2021 a ottobre 2022, è stato a capo della Segreteria tecnica del ministro della Salute Roberto Speranza, dopo essere stato per dieci anni (dal 2012 a marzo 2021) segretario generale di Cittadinanzattiva, movimento a difesa dei cittadini-pazienti del Servizio sanitario nazionale. Cinquant’anni, salernitano ma laureato in Scienze politiche a Macerata, Gaudioso ha rivestito cariche nell’European centre for disease prevention & control (Ecdc) e nella Fondazione Cannavò per la formazione dei farmacisti, ed è stato consulente della Banca Mondiale in tema di sostenibilità. Oggi espone il suo bilancio, quasi al termine dell’emergenza Covid. Un’emergenza che ha cambiato molte cose nel Servizio sanitario nazionale - si pensi alla dematerializzazione delle ricette - e ha inaspettatamente rafforzato il ruolo del Ministero nel coordinare l’offerta di salute lungo la Penisola.

Come è stato scelto, lei, rappresentante dei pazienti?

È stato un percorso imprevedibile. Con Speranza non ci conoscevamo. Ci siamo incontrati nell’esercizio delle rispettive funzioni, per la sua nomina a settembre 2019 e poi  quando seguivo per Cittadinanzattiva il Patto Salute alla Conferenza Stato-Regioni. Dal 2020 la vicenda Covid-19 ha portato le rappresentanze di cittadini-pazienti, reti civiche, mondo scientifico e professionisti della salute a moltiplicare i rapporti con il Ministero e così si sono saldate relazioni che forse in altri contesti storici non si sarebbero nemmeno create. In corso di pandemia, quotidianamente emergeva un problema: sulle segnalazioni ricevute mi confrontavo giorno e notte con medici, infermieri, farmacisti. Problemi mai verificatisi prima. Terminato nel 2021 l’impegno con Cittadinanzattiva, sono stato contattato dal Ministro. Pensavo volesse chiedermi qualcosa riguardo ai problemi tra Ssn e cittadini, invece mi ha fatto questa proposta che non prevedevo, lusinghiera e inedita. Non era mai accaduto che un Ministro chiamasse un rappresentante civico in un ufficio chiave di Segreteria, organo che trasferisce l’indirizzo politico del titolare del dicastero in atti amministrativi scritti. 

Ci ha pensato prima di accettare?

In una fase così delicata la decisione non è stata facile. Mi sono confrontato con gli amici in associazione e ho deciso. Da una parte c’era la voglia di continuare la battaglia iniziata tra i cittadini in un’istituzione, dall’altra dovevo garantire che il mio ruolo tecnico non “snaturasse” il mio percorso. Oggi rifarei mille volte quella scelta. Mi ha consentito di conoscere tra i funzionari e gli operatori persone di enorme spessore professionale e umano. 

Come si difendono i cittadini partendo dalla visuale del Ministero?

La macchina ministeriale è straordinariamente complicata. Quando vuoi cambiare cose che riguardano la salute devi mettere d’accordo, come minimo, ventuno Regioni e i ministeri di Salute ed Economia. È un percorso partecipato che può interrompersi al primo veto, rendendo impossibili poi i processi di riforma. Inoltre, se da parte del mondo scientifico e dei pazienti si chiede in molti casi rapidità decisionale, dall’altra la governance partecipata necessita di mediazioni, confronto, coinvolgimento, convincimento. Questo porta a un dispendio di energie enormi e se non sei focalizzato sui temi i rallentamenti rischiano di diventare insostenibili. È quanto accaduto per l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza. Quello è un caso di studio. I Lea sono stati fissati nel 2001 con la riforma del titolo V. Il primo aggiornamento è stato fatto un pezzo nel 2012 e uno nel 2017, mancava il nomenclatore delle tariffe ambulatoriali e della protesica… 

Appunto, il nomenclatore delle prestazioni specialistiche tuttora non è stato approvato, malgrado gli appelli del Ministero. Cosa vuol dire questo?

 Un blocco importante per gli italiani. Si tratta del passaggio-chiave: il decreto tariffe era rimasto bloccato per quattro anni e quando sono arrivato, nella nuova veste di “servitore dello stato” mi ci sono dedicato con estrema attenzione. Lo abbiamo ripreso a novembre 2021, lo abbiamo portato alle Regioni con l’approvazione del Mef già a dicembre e a quel punto le Regioni ci hanno chiesto approfondimenti: secondo loro c’erano incongruenze nei dati. In otto mesi, con un grande lavoro di squadra, abbiamo rifatto la stessa operazione svolta per 4 anni fino a ottobre 2021. Abbiamo incontrato industria, pazienti, mondo scientifico, e riscritto le cose nell’alveo della normazione del 2017 per quello che consentiva la legge. E poi abbiamo avvertito: se non entra in vigore quel decreto non ci può essere un ulteriore aggiornamento delle prestazioni da porre a carico del Servizio sanitario in modo uniforme lungo l’Italia. Un aggiornamento che peraltro era già stato definito dalla commissione Lea di cui le Regioni fanno parte.

E quindi?

Il decreto tariffe è stato riportato in Conferenza Stato-Regioni a settembre dopo aver avuto nuovo ok dal ministero dell’Economia e da una valutazione tecnica delle Regioni con cui abbiamo lavorato fianco a fianco. Abbiamo convocato la commissione tariffe, organo di Ministero e Regioni, il 12 agosto e nemmeno uno si è tirato indietro: tutti si sono messi a disposizione per lavorare, tale era la consapevolezza sull’urgenza di questo passaggio. Ma a settembre è arrivata la nuova doccia fredda: la Conferenza delle Regioni ha chiesto ulteriori valutazioni di sostenibilità economico-finanziaria. E tuttora il nomenclatore è bloccato dal livello politico. Dato che le valutazioni delle Regioni devono essere concordate all’unanimità, al momento 800 codici pari ad altrettante prestazioni restano accessibili in alcune realtà italiane e in altre no. Tra di esse ricordo la procreazione medicalmente assistita: in un Paese che vuole favorire la maternità, questa prestazione non è ancora un diritto per tutti.

Colpa delle bollette o si tratta di una schermaglia in vista della battaglia, anche sui fondi, che si giocherà nel dibattito sull’autonomia differenziata delle Regioni del Nord?

I fondi per erogare queste prestazioni, 340 milioni l’anno, sono stati ripartiti dalla Conferenza Stato-Regioni dalla fine del 2017 nelle ventuno Regioni e Province autonome, che avrebbero dovuto accantonarli. Alcune Regioni con quei soldi hanno erogato delle prestazioni, una parte ha trovato il modo di erogare le prestazioni in più previste dal nomenclatore; ma altre erano in piano di rientro e impossibilitate a erogare. Il fatto è che gli stanziamenti sono lì, non vincolati finché non entrano in vigore i nuovi Livelli di assistenza. Qualche Regione forse dovrebbe dire ai cittadini che i soldi cui essi hanno diritto sono stati erogati ma le prestazioni corrispondenti non ci sono. Io penso che ci sia un problema di responsabilità e che forse sia il tempo di aggiornare il modello di governance.

In che modo?

Nessuno qui vuole rimettere in discussione un “plus” del nostro regionalismo, cioè il principio secondo cui le decisioni sull’erogazione dei servizi vanno prese in prossimità del cittadino-paziente per personalizzarle, avvicinando le scelte ai bisogni locali. Ma perché la sussidiarietà funzioni deve chiudersi il cerchio, tutte le Regioni devono essere in grado di garantire i diritti. Oggi come oggi non lo sono, e l’efficienza dello Stato nell’intervenire dal “centro” in soccorso del cittadino è molto bassa. I critici dell’autonomia differenziata confidano nel preventivo varo dei Livelli essenziali per le prestazioni sanitarie e sociali (Lep) ma dimenticano che anche in occasione del titolo V erano stati fissati i Lea, e da soli non sono bastati a creare equità. 

Che fare allora?

I livelli di assistenza non sono scolpiti nella pietra, si evolvono nel tempo: se non si definiscono la modalità di aggiornamento e le maggioranze che votano queste ultime, si va avanti per aggiustamenti, navigando a vista, e dei pezzi restano indietro. L’aggiornamento dei Lea doveva essere annuale, di fatto la revisione periodica non è mai avvenuta. La Consulta, in una recente sentenza sulla Puglia (e anche i tribunali invasi di ricorsi di pazienti in numerose sentenze), ricorda come sia irragionevole e anzi foriero di ulteriori diseguaglianze un sistema che non riesce ad aggiornare lo stato della garanzia dei diritti. Io credo che l’autonomia differenziata vada fatta in modo “laico”, partendo dai numeri e non dal “tifo” per uno Stato unitario o federale: per far funzionare lo Stato unitario in realtà valgono le stesse condizioni alle quali si dimostra efficiente lo Stato che tende a delegare, serve cioè che funzionino tutti i livelli di governance. 

Con il Piano nazionale di ripresa e resilienza che cosa dobbiamo aspettarci per la medicina territoriale?

Anche il Dm 77 sugli standard della medicina del territorio, che prende le mosse dal Pnrr, è oggetto di critiche, ma è la prima riforma sanitaria fatta in trent’anni e nasce perché dopo il Covid urgeva definire una trama di servizi intorno ai bisogni modificati degli italiani. Inoltre, è sbagliato mettere in contrapposizione la casa della comunità “più lontana dello studio del medico” con l’esigenza di prossimità al paziente definita nel Pnrr. La prossimità si garantisce solo collegando tra loro tre livelli: la casa come primo luogo di cura, gli spoke, rappresentati da farmacie di comunità, medici di famiglia e pediatri di libera scelta, e le Case di comunità hub con i loro servizi. Ma non basta mettere in linea quel medico, quel malato, quel farmacista: serve creare una rete diffusa.

In che modo?

Il Pnrr finanzia la costruzione di reti di questo tipo e di tutti i passaggi per attivarle, partendo dal presupposto - per esemplificare - che ha poco senso un ottimo hardware nazionale per la diagnostica o la televisita senza che si dia uguale accesso per tutti alla banda larga. Sono i problemi di rete e infrastruttura, sfidanti ma non irrisolvibili, che l’Italia è chiamata ad affrontare con il Piano per ridurre le diseguaglianze, erogando servizi adattati alle esigenze delle persone da Roma al cuore della montagna o nell’isola in mezzo al mare. Parimenti, il Pnrr finanzia investimenti formativi, di tecnologia e capacità di lavorare insieme. Viceversa, il Pnrr non può consentire investimenti sul personale perché si tratta di fondi utilizzabili una volta sola e non rinnovabili di anno in anno. Chi si lamenta che il Piano spende solo per le “mura” delle strutture e non per l’assunzione di medici, infermieri, tecnici e operatori sociosanitari dimentica, o finge di dimenticare, questo importante passaggio.

Nell’accesso al bene farmaco oggi c’è un rischio di arretramento del Servizio sanitario comparabile a quello che si rileva nell’accesso a molti servizi diagnostici?

Il bene farmaco è preziosissimo perché alla luce delle diseguaglianze citate è l’unico Lea che funzioni lungo la Penisola, e ciò avviene soprattutto perché è un unico ente a decidere, l’Aifa. Le Regioni possono metterci più o meno tempo a recepire ma alla fine mettono il farmaco a disposizione. Questo meccanismo del Lea farmaco va solo fatto funzionare meglio. Due i temi fondamentali. 

Ovvero?

Primo, dobbiamo il più possibile riportare il farmaco nella farmacia di comunità, vicino alla gente. Secondo, il medicinale Ssn rintracciabile sotto casa, oltre a essere più “comodo”, è un modo per investire sulle competenze professionali del farmacista di comunità, soggetto che suggerisce, aiuta, supporta l’aderenza terapeutica è il primo consigliere del cittadino e del malato cronico che usa tanti farmaci, conosce bisogni specifici da assecondare nell’ambito di una rete che comprende la farmacia e il medico curante. Serve un modello che riporti i farmaci salvavita il più possibile sul territorio con la Distribuzione per conto e aggiorni il modello di remunerazione delle farmacie, così da valorizzare l’atto professionale di dispensazione. Non basta la capillarità delle farmacie a risolvere i problemi ma serve la competenza professionale e serve un modello di gestione dei bisogni dei cittadini in rete per restituire centralità ai malati. 

Qual è il ruolo della farmacia territoriale dopo la pandemia, e come si pone al fianco del cittadino nell’esigere il diritto a una presa in carico più completa?

La sciagurata vicenda Covid-19 ha fatto emergere quello che veramente può fare la farmacia (e non solo, tutta la sanità) per il cittadino. Un esempio? La ricetta dematerializzata era bloccata da anni, ma non perché mancassero le tecnologie: ad aprile 2020 in 48 ore tutte le parti hanno fatto cadere le riserve e ha funzionato. C’era bisogno di intraprendenza e la farmacia ne ha avuta tanta. Dai test sierologici ai tamponi, alle vaccinazioni il farmacista ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, svolgendo una vera attività di presidio territoriale, e disinteressandosi del fatto che negli ultimi anni era stato penalizzato, aveva perso centralità, gli erano stati tolti farmaci essenziali, era stato fatto indirettamente in modo si sentisse residuale nella dispensazione. Ora la sfida è pensare che indietro non si torna. 

Qual è il prossimo passo?

 a fase ulteriore è sentirsi parte integrante del Ssn al 100 per cento. Il cittadino che va in farmacia o dal medico di famiglia poco si cura del fatto che il farmacista sia un privato titolare di concessione pubblica che gestisce una convenzione: nel farmacista riconosce il Servizio sanitario che gli dà un pezzo di salute. Dobbiamo fare in modo che il sentirsi al 100 per cento parte del Ssn sia un pensiero comune alle figure del territorio. Credo che un nuovo modello di remunerazione che valorizzi l’atto professionale abbandonando vecchi modelli alternativi servirebbe ad andare in quella direzione.

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